LA LEADERSHIP MELONI
È GIÀ AL TEST DECISIVO
FINO A METTERE IN CONTO
IL RITORNO ALLE URNE
di Enrico Cisnetto
Vorrei essere una mosca a Mosca. Per poi entrare al Cremlino da qualche finestra lasciata aperta, superare i plotoni di esecuzione – se tanto mi da tanto, devono farle fuori con la stessa ferocia con cui ammazzano gli ucraini – e infilarmi nelle stanze di Putin e dei suoi tirapiedi, per vedere lo spettacolo delle risa sguaiate e delle mani sfregate fino a consumar la pelle all’ascolto delle notizie provenienti da Roma. Figurati come se la ridono nel vedere che un paese pilastro dell’Europa e della Nato – cioè quelli che Putin considera i suoi arcinemici – manifesta limiti clamorosi di tenuta della maggioranza uscita vincitrice dalle urne solo tre settimane fa, prima ancora che il Capo dello Stato abbia conferito l’incarico di formare il governo. E sai che piacere avrà fatto a quei signori trovarsi eletto presidente della Camera un fido amico della Russia, uno che ha indossato le t-shirt con la scritta “no sanzioni alla Russia”, che al tempo dell’annessione della Crimea bacchettava la Ue cattiva che non capisce la volontà di un popolo che “sente di essere tornato alla casa madre”, e che ancora dieci giorni prima della criminale invasione dell’Ucraina spendeva parole al miele per Putin.
Dico questo perché, come ho sostenuto fin dall’inizio di questa guerra e a maggior ragione sostengo otto mesi dopo, per l’Italia come per tutti i paesi occidentali, la questione delle questioni è diventata la saldezza e l’intensità della propria collocazione europea e atlantista di fronte a minacce di natura militare, geopolitica ed energetica assolutamente epocali. D’altra parte, quando in ballo c’è il pericolo di una guerra nucleare, l’Armageddon come l’ha definita il presidente americano Biden, tutto il resto o discende da questo nodo, o è marginale. Dunque, il giudizio sulla legislatura che si è appena aperta non può e non potrà che avere come metro di misura la politica estera. C’è la necessaria consapevolezza della dimensione del problema? E i primi passi, la nomina dei presidenti dei due rami del Parlamento e il lavoro per definire l’architettura del nascente governo, sono all’altezza di questa dimensione? Basterebbe osservare che la bomba atomica di cui politica italiana si sta occupando in queste ore porta il nome della senatrice Ronzulli, per dare una risposta a dir poco sconfortante. Ma come sempre le cose sono un po’ più complesse delle battute da bar. Vediamo perché.
È evidente a chiunque, fin dalla campagna elettorale, che il cosiddetto centro-destra (ora ribattezzabile destra-centro) non sia mai stato una coalizione, ma solo un cartello elettorale. E che avendo vinto nelle urne (ma non nel Paese) come tale, ora fatichi a trasformarsi in alleanza di governo. Tra l’altro, a complicare le cose, si aggiunge il fatto che c’è una forte disomogeneità tra la quantità di seggi conquistati dai tre soci del cartello e l’effettiva quantità dei loro voti. Nessun dubbio (seppure obtorto collo) che debba essere Giorgia Meloni la candidata alla presidenza del Consiglio, ma l’intesa si ferma lì. Oltre è stato ed è un tutti contro tutti, senza esclusione di colpi. Uno scontro la cui dimensione è apparsa chiara in occasione della nomina dei presidenti di Camera e Senato, scelta che ha impropriamente incrociato quella per riempire le caselle del governo nascente. La presidente in pectore, salvo l’errore di abbandonare troppo presto la strada di assegnare una delle due camere alle opposizioni – cosa che tra l’altro le avrebbe messe in difficoltà, divise come sono – ha tenuto giustamente una linea fatta di cautela formale e comunicativa e di risolutezza sostanziale. Atteggiamento di fronte al quale Salvini ha abbozzato – pur essendo il principale indiziato di chi avrebbe messo i bastoni tra le ruote di Meloni, o forse proprio per questo – e Berlusconi, per mezzo della sua ventriloqua Ronzulli, ha invece perso la testa. La conseguenza è stata la sciagurata idea (nel senso di autolesionista) di non votare La Russa al Senato, con il risultato di sancire l’irrilevanza politica di Forza Italia e celebrare involontariamente la leadership della leader di FdI, nel momento in cui in una notte si sono trovati ben 17 voti dell’opposizione (l’8,5% del totale dei senatori, esclusi quelli a vita) per consentire, alla prima chiama, l’ascesa del vecchio esponente della destra allo scranno che lo battezza numero due della Repubblica dopo Mattarella.
L’operazione porta l’inconfondibile impronta di Renzi (senza Calenda al seguito) e dei renziani del Pd – anche se nessuno potrà mai provarlo – e certo non si è palesata all’insaputa dei beneficiari, Meloni in testa. Essa, a mio giudizio, presenta due valenze positive conclamate e una potenziale. La prima è che ha certificato inequivocabilmente che siamo in regime di destra-centro e che l’alleanza è talmente fragile che rischia di avere il destino già segnato. Sorte che la successiva compattezza sulla nomina di Lorenzo Fontana a presidente della Camera – peraltro relativa, visto che il leghista filo-Putin ha preso 222 voti, 14 in meno di quanto la maggioranza dispone sulla carta (sono 237, ma un deputato di Forza Italia era assente giustificato) – non ha certo modificato. Sia per l’inadeguatezza (a esser buoni) del nominato, sia per la spaccatura che l’astensione su La Russa ha provocato dentro il gruppo parlamentare forzista. Non è un bene in sé, perché il Paese ha un disperato bisogno di una guida sicura, ma visto che è così tanto vale che si sappia fin dall’inizio.
La seconda valenza è che c’è una parte delle opposizioni, e neppure di trascurabile entità, che è pronta e capace di sparigliare le carte. In queste ore si è assistito a dure reprimende nei confronti dei “traditori” del centro-sinistra. Mi permetto di obiettare sulla base di due considerazioni: la coalizione detta di centro-sinistra non esiste – altrimenti si sarebbe presentata come tale alle elezioni, avendone anche un vantaggio nei collegi uninominali – e dunque chi ha tradito chi?; la mossa ha messo a nudo in modo plateale le spaccature del fronte di governo, e questo politicamente non è un risultato trascurabile per chi sta all’opposizione. La politica è anche questo, inutile fare le vergini violate.
Ma c’è poi una valenza inespressa di questo inizio di legislatura, ancora più importante, e che la lista dei ministri ci dirà se sarà diventata concreta o se è destinata restare solo potenziale. Mi riferisco alla caratura della compagine di governo quale conseguenza della volontà e della capacità di Meloni di tenere duro di fronte alle pressioni dei suoi compagni di strada. Sulla determinazione della giovane leader c’erano (e restano) dubbi e incertezze, anche dovute ad alcune sue contraddizioni. In queste ore, per esempio, se da un lato c’è chi si compiace delle dure parole che ha rivolto a Berlusconi – “non sono ricattabile” – dall’altro c’è chi non apprezza il suo ok alla discutibile candidatura di Fontana e chi obbietta che nel suo taccuino ci sono nomi di autorevolissimi tecnici disponibili per il decisivo ruolo di ministro dell’Economia che ben più di Giorgetti le assicurerebbero quelle coperture verso Bruxelles e verso i mercati di cui ha estremo bisogno. In più, una parte non proprio minoritaria di attori e osservatori politici si sono peritati di farle presente che la cifra della sua leadership si sarebbe misurata sull’atteggiamento contrario, quella della mediazione e della ricerca del compromesso. Come dire, perché intignarsi a negare un dicastero alla cocca del Cavaliere, dagliene uno e tira avanti. Io penso l’esatto contrario: se Meloni cede ora, sulla Ronzulli come su altro, il suo cammino sarà in salita, non in discesa. Non solo per il meccanismo dei rapporti di forza con tutti (compresi gli esponenti del suo partito), ma proprio per quella epocalità dei problemi che stiamo vivendo, di cui ho detto. Il compito suo, come di chiunque a cui fosse toccato in sorte di arrivare a palazzo Chigi in questa congiuntura, è a dir poco proibitivo. Come dimostrano le difficoltà incontrate dallo stesso Draghi. Ma quel compito diventa impossibile se, per colpa dei compromessi al ribasso cui Meloni si dovesse piegare, il governo nascente sarà non dico mediocre, ma anche solo poco meno che autorevole. Nelle figure che lo compongono e nelle politiche che verranno fatte.
Mi guardo bene dal dispensare consigli alla presidente in pectore, ma ragionando dal punto di vista degli interessi del Paese, non ho dubbi nel dire che è preferibile correre il rischio che il governo non parta nemmeno – con tutto quello che ciò può significare, compreso il ritorno alle urne – piuttosto che correre il rischio di ritrovarsi un esecutivo debole, inadeguato tanto nelle interlocuzioni internazionali, a cominciare da quella con le istituzioni europee, quanto al cospetto dei mercati, da cui dipende la sorte e il costo del nostro debito pubblico. È troppo alta la posta in gioco per giocare al ribasso. E questo vale tanto per l’Italia quanto per la persona Meloni. Nella stessa identica misura. Gli interessi coincidono