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Il mistero degli amori nella letteratura. Un destino controverso

 

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Pierfranco Bruni

Se dovessi raccontare la poesia italiana, del Novecento e altro, attraverso gli amori si entrerebbe certamente in altri destini. Un giorno cercherò di farlo. Ammesso che ci riuscirei. Tracciò parole.
Gli amori si raccontano nel vivere e nel morire. Ovvero quando si abitano senza dimenticare che in ogni rinuncia c’è un pezzo di  vento che smuove il cuore ma resiste alle tempeste che l’inevitabile scommessa dentro il tempo interminabile. Ho scritto libri d’amore ma anche di disamore. Ogni promessa mancata riga le distanze. Distanza e lontananza sono due porti e due piazze. Bisogna sempre andar via prima che l’amore possa diventare in un battito di notte oblio. Di cosa?
Di una sconfitta o di una vittoria mai vinta: la scrittura e la letteratura sono testimonianza. Corrado Alvaro muore assistito da Cristina Campo. Uno scrittore che ha raccontato il destino e  la civiltà del Mediterraneo. Aveva 61 anni. Cristina Campo muore nel 1977. Una poesia lungo la deriva del silenzio e il mistero.
Scriveva:
“… ma di noi
sopra una sola teca di cristallo
popoli studiosi scriveranno
forse, tra mille inverni:
‘nessun vincolo univa questi morti
nella necropoli deserta'”.
Aveva  54 anni. Una vita alla ricerca dello scavo della malinconia. Luigi Pirandello muore dopo avere incontrato qualche parentesi prima Corrado Alvaro. Pirandello muore nel 1936. Aveva 69 anni. Un viaggio tra maschere e verità nel gioco delle parti e delle finzioni che sfidano la fantasia.
Sono andati via senza fare chiasso con nello sguardo la forza di essere attraversati dalla solitudine e dalle parole rimaste spezzate tra le labbra. Chi ha abitato la solitudine come può abitarsi il silenzio è stata Maria Zambrano. Amica di Cristina, studiosa di Luigi e dentro le memorie del mondo sommerso di Corrado. Muore nel 1991. Aveva 87 anni. La filosofia e la poesia sono un intreccio ed è consapevole che “…la meraviglia non vuole nulla”. Perché come mi ha insegnato Cristina “La pura poesia è geroglifica: decifrabile solo in chiave di destino”.
C’è anche chi sceglie di morire in solitudine. Distante e lontano ma con la parola consumata come mestiere tra scrivere e vivere. Cesare Pavese. Muore nel 1950 in una stanza d’albergo. Aveva 42 anni. La sua Leucò era rimasta viaggio nel mito e del mito.
Cosa lega questi inquieti erranti dell’anima e nei deserti? La malinconia? Si vive di nostalgie. Molto tempo fa ho disegnato una grammatica della nostalgia. Oggi credo che bisogna vivere l’isola come porto supremo del non essere più che si era, di ciò che si è stati. Perché ad ogni promessa manca si lega una scommessa. La scommessa è una eresia dell’inascoltato.
Tutto ciò?
Non per una terra soltanto. Non per una vita passata. Non per un tempo che il tempo stesso ovunque cancella lasciando la fragilità di un ricordare che perde di senso quotidianamente. La meta o l’infinito sono segreti fino a quando il segreto non ha più senso.
Cosa si direbbero oggi Corrado, Cristina, Luigi, Maria e Cesare?
Forse sì o forse non? Riuscirebbero a dirsi una sola battuta un segno? Per parlarsi o per dirsi soltanto uno sguardo? Non darsi. Non smetto, alla mia età, di pensare che l’unico traguardo possibile sia l’impossibile. In amore l’impossibile non esiste fino a quando esiste l’amore. Dopo il nascondimento dell’impossibile verremo toccati dalla ragione che ha anche un suo senso.

In immaginario dialogante.
Corrado: “Ho viaggiato tra i labirinti e mi sono trovato a percorrere le memorie e poi mi sono reso conto che ho vissuto un mondo sommerso…”.
Cristina: “Ho cercato di cavalcare la tigre dei miei pensieri, ma ho tra le mani una tigre di carta…”.
Luigi: “La recita non finisce mai e nonostante sia tutto apparenza abbiamo sempre bisogno di una maschera anche oltre la scena stessa che viviamo…”.
Maria: “Ho abitato il mio silenzio, ma l’sola non mi è bastata perché ogni casa che mi ha accolta ha sempre dei segreti nella soffitta…”.
Cesare: “La morte giunge nel momento in cui non siamo noi a deciderlo, ma è il destino che fa di noi ciò che siamo…”.
La “necropoli” è sempre “deserta”. Ogni scrittore vive di acropoli e di necropoli perché è in questi luoghi di voci e di silenzio  che ogni gesto di tempo si colma di resti di memoria. Ed è qui che prende il sopravvento una dimensione di esistere che ha un senso nello spazio dell’onirico.
Cesare: “Non ci saranno giorni senza la misura del destino…”.
Luigi: “I miei personaggi? Io sono l’unico personaggio che vive in tutti i personaggi…”.
Maria: “Ho fatto della mia filosofia una confessione di letteratura e di esistenza…”.
Cristina: “Bisogna spettare che i ritorni diventino un vero ritorno…”.
Corrado: “L’uomo che vive aspettando naviga legando il confine agli orizzonti…”.
Ognuno di loro si porta dentro la teatralità di un retroscena. La grande confusione è lo smarrimento tra la ribalta e ciò che si considera realmente la scena. Si è sempre estranei. Lo straniero che vive in loro è ciò che loro non sanno di essere. Ma si è stranieri quando l’impossibile muore e subentra come razionale premessa il solo possibile.

La scrittura diventa una griglia simbolica. Una griglia! Per alcuni è diventata una pagina scritta. Per altri una parola consumata prima di essere pronunciata. Ma in ognuno di loro la nostalgia non fu mai una vaga promessa. Non bisogna avere nostalgia ma solo consapevolezza e accettazione. Il sacro d’Oriente conosce ciò.
Dalla nostalgia si rinasce o si muore. O si scrive.
La tragedia è sempre la sconfitta della nostalgia. Quando si incontrano il vissuto e il vivere si entra in un tempo che resiste alla memoria.
Così nel mondo sommerso da Corrado a Cesare e nei sottosuoli da Cristina a Luigi sino al vento andaluso di Maria. Ma sono tutti personaggi che abbandonano gli Occidenti per diventare mito e labirinto. Il greco che si confronta con la terra dei Muezzin. Alvaro che va in Turchia conosceva ciò. Così il greco Pirandello o l’andalusa Zambrano o l’ellenico Pavese o l’esoterica Campo.
Il resto è la pronuncia di una sconfitta o di una vittoria mai vinta. Questo è lo scrivere? Questa è la letteratura? Non so. Ma la letteratura che non scrive la vita è soltanto rappresentazione. Scrivere è soprattutto creare un nodo tra il simbolo, il mito e gli archetipi. La dissolvenza è il vero limite. O forse il non limite. Nessuno si perde da solo in amore.

Lungo la traccia del deserto c’era una volta un arabo di nome Rabin. Un giorno incontrò Samira. Una donna che camminava, con il velo azzurto sugli occhi, nello spazio di una Moschea. Si amarono. Rabin chiese a Samira: “Se il tuo amore è l’infinito accogli ogni impossibile e trasformarlo in possibile. Se amore è ci riuscirai. È scritto nel destino del canto. Se le tue promesse hanno il disincanto del tempo non mi cercare. Cercami soltanto se le promesse saranno verità e la verità certezza. Perché ogni promessa mancata sarà una illusione vissuta come delusione. Non bisogna mai stringere un patto tra la promessa e l’illusione”. Così disse Rabin.

La letteratura a volte è anche silenzio. Dopo queste parole Rabin abitò l’isola e Samira visse il suo tempo nel suo viaggio.

Cosa vuol dire ciò? Le metafore fanno la letteratura ricreandola dalla vita. Forse anche questo fu un concetto di Rabin. E tutto questo? In letteratura tutto si intreccia quando si abbandona la cronaca ed entra il mistero.

E Luigi Corrado Cristina Cesare… Sono questo intreccio tra il greco mare e le piazze delle moschee. Ma questa è altra storia. Altra vita. Il mistero degli amori nella letteratura. Un destino controverso.

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