Con Antonio Martone alla Corte dei Feaci
di Domenico Bilotti
La finitezza del naufrago che sopravvive attraverso la parola: le colonne d’Ercole che racchiudono il mondo dell’amore. Queste sono le immagini che, a prima lettura, iscrive all’attenzione il volume poetico di Antonio Martone, “Alla corte dei Feaci”, per i tipi di De Frede (Napoli, 2022).
La silloge poetica inizia con una anomala, e perciò perfettamente coerente, introduzione dell’Autore stesso: non è un esercizio stilistico, da critica letteraria, ma un vero e proprio saggio di gnoseologia. Si tratta di poche cartelle, di prosa scientifica, in cui l’Autore squaderna il suo peculiarissimo episteme della memoria: la memoria duplicemente forma della conoscenza e luogo di scoperta dell’assenza – perché il ricordo abita il presente, ma i due non convivono nella medesima stanza della nostra mente.
Non sorprende poi che una così robusta raccolta poetica provenga da un filosofo politico, che non occasionalmente ha frequentato il diritto comparato e la teoria generale del diritto – saperi non tanto da palati nobili, ma da osservatori percettivi del tempo che scorre nello spazio dell’agire comunicativo (individuale e collettivo, pubblico e privato, civile e religioso). Martone, anzi, nella sua introduzione ribalta la tradizionale tassonomia che viene al diritto canonico e alla filosofia morale dalla distinzione di un foro interno e di uno esterno: uno intimo e inscindibile da una sfera comunque condannata a un opportunistico giudizio previo di irrilevanza giuridica, uno tutto imbevuto dentro trame di potere completamente eteronome. Questa recente interrelazione tra la storia delle istituzioni e la storia del pensiero, nel campo lirico, ha un esponente, stilisticamente assai diverso, ad esempio, in Elio Tavilla: il filosofo politico e il giurista che ripercorre il passato non sono cioè sordi davvero mai all’esplorazione autocritica del sé. E in questa scia di parola resistente all’inghippo sordido del dominio troviamo pure il compianto Dionesalvi, che in fondo da formazione giuridica proveniva.
Le poesie sono all’altezza della sfida. Lo spunto iniziale è ovviamente l’Odisseo transfuga: il nome di nessuno che è sbattuto qua e là nel Mediterraneo. È una strana condanna, la più strana: quella che contiene l’attitudine del condannato. L’Ulisse della nostra cultura, senz’altro da Dante in poi, è l’inquieto punito inviso a Nettuno, certamente, ma è anche il reo attivo, in moto verso la conoscenza per il tramite dell’insondabile incontro. Lo stratega militare che ha posto fine a una lunga guerra con uno stratagemma (quella straordinaria vox media, che contiene sia la scienza del marchingegno sia l’esperienza dell’espediente) arriva da un popolo senza armi.
Alla Corte dei Feaci ci svela però un codice eterno: una batteria di istantanee, di pannelli pittorici, in cui l’essere si riappropria del suo emergere all’esistere. La dolente “Ulisse nell’Ade” ha un sapore quasi scaramantico, l’ineluttabile scafandro con cui ci si dona ai propri fantasmi; “Penelope” si erge a ideogramma dell’attesa che trattiene; “Tiresia” ha la profondità di chi frequenta l’interpretazione del mito anche attraverso la connotazione dei corpi. Poi la ritmica, nelle sezioni successive, abbandona il parallelismo epico, che non nasceva come mera clausola letteraria ma in quanto disarmante confessione, e si approfondisce ancora il tragitto nella memoria, con liriche che toccano amore, perdita e ricerca. Queste ultime, peraltro, parole che tutto fuorché antinomiche si presuppongono senza soluzione di continuità: “Il ricordo di te”, “Dove sei andata”, brillano di luce propria.
Le pagine conclusive alternano lunghe suite, che sembrano prestarsi particolarmente a un ipnotico mantra musicale, a brevissimi frammenti di simbologia crepuscolare, che raccontano la desolazione. Guarda caso, contestualmente sconfitta e (ri)nascita di ogni filosofia politica. Ben più che un epitaffio la stanza conclusiva “La settima testa intravedo/ del drago la settima testa/ un’indistinta paura aleggia sul mondo/cupi i segnali/ nondimeno/ Elke ed io vogliamo vivere ancora”.