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IL TERZO POLO CALENDA-RENZI

È ABORTITO, MA NON L’IDEA

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ORA SI STUDI IL “CASO MACRON”

E CI SI PROVI SUL SERIO
“Ginepraio psichico”. Così Massimo Recalcati, psicoanalista dotato di grande talento divulgativo, ha definito lo scontro Calenda-Renzi ma soprattutto la gazzarra che si è scatenata per l’attribuzione delle responsabilità circa il fallimento del cosiddetto Terzo Polo. Io la scorsa settimana, più prosaicamente, avevo attinto al codice della strada, parlando di “concorso di colpa”. In entrambi i casi, la conclusione è la medesima: chissenefrega. Nel senso che non solo è stata messa in scena una soap opera inguardabile, ma anche del tutto inutile. Perché non ha alcuna importanza stabilire se uno dei due “galli nel pollaio” ha più colpa dell’altro (sempre Recalcati, in un mirabile articolo sulla Stampa, ci ricorda che Majakovskij prima di suicidarsi definì “inutile rinfacciarsi i torti reciproci”). Molto più proficuo, invece, è osservare la crisi che sta vivendo in Francia Emmanuel Macron, l’uomo che con molto più successo dei nostri due “galli litiganti”, che ambirebbero a rompere il bipolarismo italico, ha sconfitto sia la destra sovranista (che si è mangiata il gollismo) sia la sinistra populista (che ha fatto fuori i socialisti), scardinando con un “non partito” il quadro politico transalpino. Per trarre da Parigi qualche efficace insegnamento sul “centro” che si vorrebbe costruire a Roma.

 

Nel 2017 il “Kennedy europeo” era riuscito a convincere i francesi – desiderosi non meno degli italiani di “novità” che spazzassero via i vecchi arnesi della politica, intesi non solo come le figure che la incarnavano, ma anche gli stessi partiti della Quinta Repubblica – che un giovane e moderno tecnocrate, capace di fare di conto e imbevuto di cultura dell’efficienza e del merito, potesse finalmente rispolverare la “grandeur” mortificata dalla mediocrità delle ultime legislature. Ma Macron, pur dotato di indubbie qualità, non ha tenuto conto di due cose fondamentali. La prima è che senza un vero partito alle spalle, la leadership politica, per quanto forte, è destinata a durare un tempo assai limitato. I partiti hanno i loro difetti, sia chiaro, ma la soluzione è modernizzarli, non farne a meno. La seconda cosa che è sfuggita all’inquilino dell’Eliseo è che per governare società atomizzate in circostanze complesse come è l’epoca che stiamo vivendo, occorre avere un consenso vero, che non è quello dato dall’avere un voto in più di un tuo avversario rispetto ad una platea di votanti che è la metà degli aventi diritto. Hai voglia di dire che l’astenuto ha sempre torto e che i marchingegni elettorali e istituzionali rendono legittimo ciò che la matematica nega, ma quando non hai la piena rappresentatività ecco che accade che una riforma ragionevole e per nulla radicale come quella che porta l’età pensionabile da 62 a 64 anni scatena la protesta e mette a ferro e fuoco la Francia. Costringendoti a farla passare fuori dalla corsia parlamentare, a scansare per un soffio la mozione di sfiducia lanciata dall’Assemblea contro il governo, a imporre la riforma contro un parere popolare che in realtà va ben al di là del fatto specifico, perché racchiude le tante illusioni tradite di chi aveva creduto alla promessa di un rinascimento francese nell’ambito di nuove frontiere disegnate per un’Europa finalmente grande potenza tra le grandi potenze (per chi l’avesse persa, si veda la War Room su “Macron flambé” di martedì 18 aprile, qui il link).

 

Non è un caso che il reclinante presidente francese stia ora tentando di recuperare il consenso perduto provando ad acquisire una leadership europea – approfittando del declino della Germania, orfana della Merkel e della “große koalition”, e della marginalità della Meloni rispetto a Draghi nel contesto continentale – da portare nel proscenio mondiale rispolverando la vecchia linea del generale De Gaulle sulla “equidistanza” dell’Europa tra Cina e Stati Uniti e di conseguenza cercando con Pechino di imporre a Mosca e Kiev i termini prima di un cessate il fuoco e poi di una pace duratura. Un tentativo che, confesso, mi suscita allo stesso tempo ammirazione e speranza – perché trovo abbia ragione Kissinger nel giudicare fragile la strategia di Biden nella vicenda russo-ucraina – ma anche forte preoccupazione, perché non sono venute meno, anzi, le ragioni del patto euro-atlantico e perché, contrariamente ai suoi predecessori, Xi Jinping è l’unico presidente cinese post Mao con cui è del tutto sconsigliabile stringere accordi. Tuttavia, il viaggio di Macron a Pechino e il suo tentativo di scuotere l’Europa dall’apatia in cui è caduta dopo aver scoperto che la crisi energetica scatenata da Putin appare tutto sommato gestibile, consegnano ai nostri occhi l’immagine del presidente transalpino come di un leader a tutto tondo, dotato di uno spessore culturale non banale – diciamo un liberal che guarda più volentieri al riformismo di sinistra che ai conservatori – e che ha maturato un’esperienza politica che gli ha permesso di evolvere rispetto alla sua precedente dimensione esclusivamente tecnocratica.

 

Proprio per questo, per i pro e i contro che la vicenda macroniana evidenzia, sarebbe utile che Calenda e Renzi e il drappello di seguaci di cui si sono circondati studiassero quel case history (come si usa dire nel contesto manageriale) per trarne qualche utile indicazione. A cominciare dal fatto che è sbagliato anteporre il leader – anche ve ne fosse uno all’altezza di Macron – al soggetto politico, che va costruito non come il “partito di”, ma come il “partito dei”. In questo caso il partito dei riformisti (o riformatori, se si preferisce) di varie estrazioni culturali, laiche e cattoliche, accomunati da una rigorosa analisi critica del bipolarismo (poi diventato bipopulismo) fin qui realizzato. E quindi che immaginano non un centro genericamente alternativo alla destra e alla sinistra, ma capace di fare due cose che ritengo fondamentali per fare evolvere il sistema politico bloccato, e in perenne fase di transizione, dal 1994 ad oggi. La prima è proporre un modello – partiti non personali; legge elettorale che garantisca la maggiore rappresentatività possibile; assetto istituzionale coerente e semplificato – che possa essere discusso nell’ambito di una nuova Assemblea Costituente, così da scrivere in modo solenne la Carta della rinascita della Repubblica, sottraendola ai giochi politici spiccioli delle commissioni parlamentari (non a caso tutte fallite). La seconda è che sappia lavorare in modo pragmatico sulle alleanze, in modo da far esplodere le contraddizioni che stanno a destra come a sinistra e di conseguenza rendere ininfluenti le ali estreme e le componenti più populiste dell’intero arco parlamentare.

 

C’è voluto Giuliano Ferrara – uno che è stato svezzato a latte e politica stando sulle ginocchia di Togliatti e che poi ha portato il suo leninismo in dote a Berlusconi e che dunque nulla ha mai avuto a che fare, neanche per sbaglio, con la storia del Pri lamalfiano – per ricordare (sul Foglio) ai “due galli nel pollaio” del (fu) Terzo Polo la lezione di Ugo La Malfa che, forte di uno straordinario bagaglio culturale e di idee programmatiche e di una ineguagliata capacità di visione politica, non si faceva cruccio del misero 3% che il suo partito, tanto ammirato ma poco votato, raggranellava. Ciò che contava era far circolare idee e progetti forti intermediando le relazioni tra le forze maggiormente dotate di consenso e dunque più esposte al populismo, costringendole a compromessi virtuosi. Certo, oggi non siamo più in regime di proporzionale puro, che consentiva alla piccola enclave repubblicana di contare enormemente più del suo peso parlamentare, ma è anche vero che la dismissione delle due chiese ideologiche che hanno tenuto banco nel Novecento ha potenzialmente reso più fluida la dinamica politica (purtroppo fin qui solo sulla carta), e quindi più facile il lavoro di chi vuol essere non la terza ma “l’altra” voce della politica italiana.

 

Di una formazione politica con caratteristiche lamalfiane c’è oggi più che mai un disperato bisogno, e non saranno gli errori – temo esiziali – di Calenda e Renzi a farlo venir meno. L’idea di fondere due partiti personali, e per di più attraverso un’operazione verticistica priva di qualunque apertura alla società civile e al mondo della cultura, era profondamente sbagliata, oltre che inattuabile. Meglio che sia abortita, piuttosto che nata e poi morta nella culla. Ora, siccome né il capo di Azione né quello di Italia Viva hanno organizzato un processo costituente e dato vita ad un congresso di un nascente vero partito, libero e aperto, ma hanno fallito – o fatto fallire – l’operazione in provetta di fondere le due loro “cose”, temendo entrambi che l’uno potesse lanciare l’opa ostile sull’altro, sarà bene che chi sente l’esigenza di promuovere quel nuovo soggetto politico che i due protagonisti del “ginepraio psichico” non hanno saputo o voluto realizzare, prenda il coraggio a due mani e ne avvii il processo fondativo. Magari facendo una telefonata a Macron che potrebbe (e dovrebbe) essere interessato a far sorgere un partito transnazionale, con un dna autenticamente europeo. E sapendo che tanto Calenda – che non ha la necessaria caratura politica – quanto Renzi – che possiede tutte le doti di un politico ma è il primo nemico di se stesso e sembra avere altre mire – lasceranno pienamente inespresso il potenziale dell’area terzopolista.
 

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