L’ALLARME SPREAD A 200 PUNTI
NON VA SOTTOVALUTATO
E IL 2011 (CHE NON FU UN GOLPE)
CE LO DOVREBBE INSEGNARE
Talvolta, la storia, quando si ripete, è perché non ha insegnato niente. Gli stessi che nel 2011 – e per molti anni dopo – gridarono allo scandalo perché, secondo loro, la caduta del governo Berlusconi sotti i colpi dello spread fu un golpe premeditato ad opera del Quirinale che aveva fatto da sponda ai “poteri forti europei” (Merkel, Sarkozy, la Bce) e a quelli finanziari internazionali, sono gli stessi che oggi evocano l’esistenza di un complotto contro Giorgia Meloni e il suo governo. Cui si aggiunge addirittura qualche buontempone che sostiene che sorte analoga la si stia riservando anche a Elly Schlein nell’intento di spianare la strada ad un nuovo governo tecnico (come se il Pd in mano a lei rappresenti davvero un’alternativa all’attuale esecutivo). Già, perché di fronte alle enormi dissonanze dentro la maggioranza (anche su temi cruciali come il posizionamento internazionale e le alleanze in Europa) e alle evidenti difficoltà nell’azione del governo, anziché discuterne e affrontarle, si pensa bene di attribuire la colpa a chi queste impasse le critica (autorevoli giornali internazionali) o le osserva con preoccupazione (i mercati finanziari). Così lo spread a 200 punti diventa non il segno dell’inquietudine dei mercati verso la tenuta del nostro debito, ma la certificazione che “poteri oscuri” e “speculazione finanziaria” stiano tramando contro gli assetti politici italiani. Errore a cui si aggiunge anche quello di ragionare sulle soglie di pericolosità dello stesso differenziale con i Bund tedeschi come se fossimo a 12 anni fa – ho letto dichiarazioni di autorevoli esponenti della maggioranza secondo cui sotto i 350 punti si può stare sereni – quando invece la cosa grave è che più nessun paese europeo, Grecia compresa, è oltre lo spread dei nostri Btp.
Siamo insomma ultimi in classifica, e la griglia è molto diversa da quella del passato (nel 2011 quando Berlusconi diede le dimissioni, lo spread era arrivato a 575 punti). Eppure, proprio in questi giorni c’è stata una formidabile occasione, per quanto mesta, per rileggere la storia e riflettere sull’oggi con ben altro spirito. Mi riferisco alla morte di Giorgio Napolitano e il rito funebre che si è svolto alla Camera, carico di solennità politica. Basterebbe aver ascoltato l’orazione di Gianni Letta, e magari rileggere oggi quelle parole con attenzione, per sapere che, al contrario della sua corte, Berlusconi non si considerò defenestrato dall’allora presidente della Repubblica e vittima di una cospirazione, anzi si sentì sollevato (parola di Pierferdinando Casini) e fu sinceramente favorevole alla “grande coalizione” con il Pd per eleggere Monti e sostenere il suo governo tecnico, da tanto che era preoccupato per la situazione del Paese. Si può giudicare come si vuole, per il metodo e nel merito, la lettera della Bce, a firma del presidente uscente Jean Claude Trichet e da quello entrante Mario Draghi, inviata al Governo italiano nell’agosto 2011, in cui si dettava l’agenda delle cose che l’Italia avrebbe dovuto fare per evitare il default, ma non fu certo quella a sgambettare il governo di centro-destra di allora, quanto piuttosto le riforme non realizzate e le scelte fatte che avevano messo a repentaglio la finanza pubblica, cui quella lettera chiedevano urgentemente di rimediare.
Ecco, allora si gridò al complotto anti-berlusconiano, pensato a Bruxelles e a Francoforte, così come oggi si parla di manovra anti-Meloni. Alla Bce c’è Lagarde, che con il rialzo dei tassi punisce l’Italia, mentre a Parigi e Berlino ci sono Macron e Scholz, che non ridono platealmente di Meloni come Sarkozy e Merkel fecero di Berlusconi, ma il copione, secondo i complottardi, non sarebbe cambiato. È bastato un articolo del Financial Times, del 18 settembre, intitolato “La luna di miele è finita”, e uno graffiante dell’Economist, ed ecco che ad essere al centro della questione non sono i ritardi del Pnrr, la mancata approvazione del Mes, l’infelice scelta di tassare i cosiddetti extra-profitti delle banche (da cui si sta tornando indietro) o l’inappropriata lettera al governo tedesco sui migranti, bensì le critiche “pretestuose” rivolte al governo, segno che non meglio identificati “poteri forti” vogliono defenestrare chi è stato democraticamente eletto dal popolo a favore di un qualche tecnico fantoccio di quei poteri occulti. E pazienza se a Wall Street o tra i banker europei siano invece la tassa sulle banche e il tentativo di attribuire per legge poteri mai visti alle minoranze in società quotate in Borsa, a destare malumore, visto che sono due cose che vanno contro i principi fondamentali che regolano le economie di mercato.
E, come nel 2011, anziché provare a rimettere il Paese sulla via della crescita strutturale – non quella dopata dei bonus – facendo con coraggio le riforme e le scelte necessarie, si evocano machiavelliche congiure. A questo proposito, faccio sommessamente notare che allora la scelta di questa narrazione non portò bene all’inquilino di palazzo Chigi. E temo che sarà così anche questa volta, se non si ascolta neppure chi (Giulio Tremonti) pur essendo stato un convinto assertore della strategia dello sgambetto a Berlusconi (e a lui) oggi dice papale papale che “non c’è nessuna regia occulta dei mercati contro l’Italia”.
Per evitare che la storia si ripeta, Meloni ha tre modi. Il primo è evitare non solo di dire, come ha detto, ma di pensare, che “lo spread preoccupa solo chi vuole che cadiamo, chi come sempre immagina che un governo democraticamente eletto, che fa il suo lavoro, che ha una maggioranza forte e stabile, debba andare a casa”. Tra pochi giorni le maggiori agenzie di rating daranno il loro giudizio sull’affidabilità economica dell’Italia e lì vedremo chi si dovrà preoccupare dello spread. Il secondo modo è dare al Paese una manovra coraggiosa, e non solo prudente come lei stessa ha definito quella che s’intravede dalla Nadef appena approvata. Perché nel giudizio dei mercati, da cui dipendono le sorti del nostro debito pubblico, specie ora che la Bce ha chiuso l’ombrello protettivo che per anni ci aveva tenuto sopra la testa, conta relativamente che la presidente del Consiglio voglia evitare che la lista della spesa presentatale dai partiti di maggioranza, pari a 80 miliardi (parole sue) si tramuti in spesa pubblica aggiuntiva. Conta di più il fatto che nella legge di Bilancio 2024 non è previsto alcun intervento sulla spesa corrente strutturale (solo lo stop a superbonus e reddito di cittadinanza) e che per trovare i fondi per la conferma del taglio del cuneo fiscale, per un minimo di riduzione delle imposte per i redditi più bassi, per le misure per le famiglie e per i rinnovi dei contratti del pubblico impiego, per un totale di 14 miliardi, bisognerà incrementare il deficit da un tendenziale del 3,6% ad un programmatico del 4,3 %. Così come conta che il moloch del debito in rapporto al pil non viene intaccato (solo un decimo di punto l’anno prossimo e mezzo punto entro il 2026). Tanto più che la crescita torna ad essere quel “zero virgola” che ci ha accompagnato negli ultimi tre decenni (a questo proposito vedi la War Room di mercoledì 27 settembre con Carlo Bastasin, Gregorio De Felice e Dario Di Vico, qui il link), e che se nel 2024 non si farà, come è assai probabile, il previsto +1,2% del pil, allora il debito, in rapporto al prodotto lordo, finirà addirittura per aumentare.
Infine, il terzo modo che Meloni ha per evitare i guai del 2011 è, come dicevo all’inizio, rileggere con serietà e senza pregiudizi, quella storia (che peraltro ha vissuto, anche se non da protagonista), evitando di piegarla alle esigenze dell’oggi. Si legga la bella analisi scritta da una sua ex collega di partito, Flavia Perina, che ricordando come la destra che rivendica il diritto ad una rilettura del passato remoto dell’Italia abbia il dovere di esercitare un onesto revisionismo anche sul passato prossimo. E ci convinca che ha capito e imparato la lezione della storia.
Insomma, guai a fare spallucce ai problemi e pensare che ci siano trame oscure in atto. La verità, che la nostra classe politica ignora o fa finta di non vedere, è molto semplice: gli operatori finanziari sanno bene che la stagione dei tassi bassi è finita per sempre e che il costo del debito è molto maggiore di un tempo. E questo spiega la fiammata oltre 200 punti dello spread di giovedì, poi leggermente rientrata. Gli allarmi non stanno ancora suonando, ma i sensori stanno vibrando. Il resto è fuffa.