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Il “giallo” dell’opera scomparsa. Sabato 25 novembre, alle 18,15 l’associazione “Amici della Musica” presenta per la prima volta tre brani di Nicola Antonio Manfroce, il celeberrimo musicista e compositore calabrese d’epoca napoleonica, mai eseguiti in tempi moderni da un’orchestra. Per gli appassionati di musica classica si tratta di una occasione imperdibile che vedrà impegnata l’orchestra del Conservatorio di Vibo Valentia. Le musiche di Manfroce riecheggeranno nel teatro di Palmi che gli è stato intitolato. Un teatro riaperto dopo un quarto di secolo. I brani sono stati recuperati e studiati dal docente e compositore Domenico Giannetta che ne illustrerà i contenuti al pubblico atteso da tutta la regione. L’occasione è tuttavia doppiamente importante e ghiotta perchè offre lo spunto a studiosi e appassionati per riparlare di un’opera scritta da Manfrtoce e andata perduta. S’intitolava “Piramo e Tisbe” e raccontava di una storia d’amore finita tragicamente come era stato per la Giulietta e il Romeo immaginati da William Shakespeare. Un capolavoro quello di Manfroce cui a più riprese hanno accennato nel corso di un secolo e mezzo critici e ricercatori francesi . <Sarebbe straordinario> commenta Antonio Gargano presidente degli “Amici della Musica” di Palmi <riuscire a ritrovarne traccia>. Ma chi era Nicola Antonio Manfroce?
I capelli castani e ricci, le labbra accentuate, la voce suadente e baritonale, il naso perfetto come se fosse disegnato da un scultore e gli occhi scintillanti, rivelatori d’una intelligenza fuori dal comune. Una intelligenza intuitiva e creativa accompagnata da una fisicità quasi perfetta Nicola era nato per stupire, per far innamorare uomini e donne di sé e delle sue geniali produzioni artistiche. Impresari musicali e nobildonne dell’Italia napoleonica se lo contendevano come se fosse un prezioso e introvabile gioiello. Lui le sette note le aveva in testa da quand’era nato in quella modesta casa di Palmi dove il padre e la madre si erano trasferiti dopo il disastroso terremoto del 1783. Domenico, maestro di cappella prima a Cinquefrondi, paese di origine e poi a Palmi, guidava gruppi musicali, impartiva lezioni e suonava in chiesa; e il figlio, Nicola Antonio, lo seguiva come un’ombra carpendone i segreti ed emulandolo. Domenico era orgogliosissimo di quel bambino talentuoso che la vita aveva regalato a lui e alla moglie dopo il dolore e le disgrazie cagionati dal sisma spaventoso che aveva ingoiato uomini e cose. Nicola aveva cominciato suonando timidamente il violino sulle cui corde inseguiva le scale imparate assistendo il genitore mentre si esercitava. Già ad 11 anni, con quei capelli arruffati e lo sguardo sognante, il bambino era così bravo da meritare di accompagnare il padre nelle suonate fatte davanti ai fedeli della Chiesa dell’Annunziata (oggi dei Monaci) di Palmi . E quando Domenico, con il suo gruppo di musicisti, fu invitato a tenere un concerto a Catanzaro si portò dietro il figlioletto inserendolo tra gli strumentisti. La presenza del piccolo artista innervosì il committente che chiese infastidito spiegazioni. Quando, tuttavia, la banda cominciò a suonare la bravura e la passione di Nicolino suscitarono la sorpresa e il compiacimento generale, tanto che al termine del concerto un commerciante danaroso propose al padre di finanziarne la trasferta e gli studi nel conservatorio della Pietà dei Turchini di Napoli.
Fu l’inizio di un’avventura straordinaria quanto breve che vide questo ragazzino e poi uomo conquistare alte vette di considerazione e popolarità. Nella Capitale del Regno dimostrò subito tutto il suo valore ai Maestri che tenevano lezione, tra i quali spiccava per fama Giacomo Tritto che lo lanciò nella composizione di musica sacra. Cinque anni dopo l’ingresso nel conservatorio, quando il celebre impresario Domenico Barbaja assunse la direzione dei teatri reali partenopei, Nicola fu incaricato di comporre l’aria “No che non può difenderlo” nell’ambito della cantata “Il Natale di Alcide” prodotta per celebrare, il 15 agosto del 1809, il compleanno di Napoleone Bonaparte. Il musicista calabrese aveva dunque solo 18 anni, quando esordì con grande successo al “San Carlo” di Napoli. Chi lo avrebbe mai immaginato… Il genio di Nicola Antonio Manfroce, si spense per sempre a soli 23 anni, a Napoli, dove venne poi sepolto. A piangerlo, in segreto, furono tantissime donne, nobili e meno nobili, che egli aveva stregato nel corso della breve ma intensissima e sregolata vita. Pietro Maroncelli lo ha consegnato alla Storia del mondo e della Musica con una sublime orazione funebre: «Questo fu Nicola Antonio Manfroce nel compor musica celebrato maestro, di elevatissimo ingegno, caldo, buono e dolcissimo amico: magnanimo, generoso e al tutto veramente italiano. Pare che la sua eccellenza nella musica egli tenesse da proprio intrinseco e fisico abito… Oh buon Manfroce, che fosti sempre dolcissima parte di me medesimo, se nel bel tempo della vita ebbi mai teco alcuna grazia e se in cielo largamente t’arride il vivo sole che non patì mai sera, prendi in grado quest’ultimo fiore ch’io spargo su la tua tomba, e le lacrime vere che mi piovon dagli occhi per lo sconsolato abbandono in cui mi lasciasti, e per le recise speranze che doveano levar sublime al cielo la possente lira che fu dell’invilita Italia tornata bastarda! La quale in tale sventura pur con me insieme implora un tuo sguardo a tanto compianto lamento».

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