Nella musica della Divina e nel dramma del suo vero primo amore, ovvero Martino Cafiero
PIERFRANCO BRUNI
Beethoven o Wagner. I Notturni di Chopin. Suoni d’incanto e di tragedia. Di malinconie. Le vite sono malinconie nel teatro di Eleonora Duse. Ma è anche una traversata. È una traversata.
Se pur di un tempo limitato lo spazio incontra sempre le ore. Piccole o grandi. Immense e lontane.
Disegnano sempre una distanza. Le ore. Sono quelle che non mutano tra un dire e un correre. Occorre vivere il mare per abitare le onde che si scagliano tra un desiderio e un destino.
Precisazione di un attimo tra una orchidea e un roseto in fiore. Infinito o indelebile il tempo che non ha voce ma voci che dal tramonto giungono a farsi notte.
Eleonora amava i linguaggi della musica. Si portava con sé sempre la maschera di Beethoven. Ma la musica è anche filosofia.
D’Annunzio forse non avrebbe scritto il suo “Trionfo della morte” senza gli altri e bassi di Wagner e senza l’indissolubile penetrazione di Nietzsche.
Quanto è contato Nietzsche in Eleonora Duse? Lo scavo di Chopin è nostalgia oltre che malinconia in Eleonora Duse. In questo però c’è il d’Annunzio della “Città morte”. Ovvero la grecità soffusa. Senza Gabriele Eleonora non sarebbe stata la tragica della Francesca da Rimini.
Con Martino Cafiero c’è la napoletanetà e il dolore. Cafiero fu realmente il primo amore con il quale ebbe un figlio che morì dopo due settimane.
Con Arrigo Boito, che non è assolutamente il “primo amore” c’è il melodramma che la Divina non accetterà mai e non accoglierà in nessuna sua ricerca. Il Verdi è di Boito.
Beethoven è nelle alzature dei toni e dei ritmi legandolo però, appunto, a Chopin. Con d’Annunzio si giunge al silenzioso dramma. Iorio e la Gioconda sono dramma ma sono anche musica. L’intermezzo è il verso. Il verso è silenzio però. Eleonora Duse recita e interpreta il Vate perché crede in quel linguaggio al punto di portarlo alla madre di Cenere della Deledda.
Anche qui il ritmo è alto sonante. E il sogno? Shakespeare è un passaggio inevitabile, ma quel sogno è la celebrazione del tempo che si misura lungo le movenze delle tende alle quali Eleonora si aggrappa.
Si pensi al sussurrare decifrabile della voce di Eleonora, la quale ha echi e suoni in un canto taciuto. Eleonora è un taciuto nel grido e un vissuto nella gestualità. Aspetto che non capì perché non capiva il teatro di poesia.
D’Annunzio comprese bene perché visse la poesia nella vita e nella parola. Tra i due, diciamolo con sincerità, Boito e d’Annunzio, chi vince il tempo nel tempo moderno è d’Annunzio. Cattura il linguaggio nel teatro. Boito non capì mai la poesia perché era infarcito di un melodramma che il Vate supera e che Eleonora non accoglie.