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Il Chiosco dei fiori di Francesco, Antonio e Roberto: a Via Cilea, Napoli, da oltre cinquant’anni, ha visto il Vomero e i Vomeresi mutare tra stile liberty e tangenziale.

 

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Francesco ed Antonio, fiorai da una vita, assieme al loro “allievo” Roberto, su Via Francesco Cilea, ci hanno trascorso mezzo secolo nel loro piccolo chiosco verde profumato di fiori e pieno di colori. Se si chiede ad Antonio (il fratello più grande), quando abbia cominciato la sua professione risponde: “Dalla pancia di mia madre”. Difatti: la mamma, Maria, col pancione, si recava al Maschio Angioino, al mercato dei fiori con la funicolare centrale alle quattro del mattino, poi, col canestro sul capo, pieno dei fiori acquistati e con lo stesso mezzo rientrava al Vomero e andava a venderli col paniere davanti al Bar Daniele (che oggi non c’è più). Aiutava nell’economia domestica il marito che lavorava nell’edilizia.

Il VOMERO: c’è chi ci è nato e chi ci è arrivato più in là. Un tempo era pieno di verde, di piccole fattorie con mucche e animali, ricco di ville di cui ancora alcune, davvero belle, si sono inserite nel paesaggio urbano. Quanti possedevano quei terreni li vendettero e contrattarono coi costruttori le abitazioni in cui successivamente andarono a vivere. Niente di molto pregevole su Via Cilea (su cui verrà costruito il ponte e, successivamente la tangenziale che permette di raggiungere la zona collinare della città e attraverso il corso Europa e via Manzoni, la collina di Posillipo), mentre  la precedente  suddivisione dell’area in lotti più piccoli, che nel 1889 la Banca d’Italia (subentrata alla Banca Tiberina) decise, dette luogo a quella tipologia di villa o villino in uno stile liberty anche di pregio, dove gli esiti più autentici li ritroviamo nella zona attorno alla Villa Floridiana, attorno a San Martino e su Via Palizzi, via L. Sanfelice e via Toma e in parte anche via Aniello Falcone, vista mare.

L’etimologia è controversa: C’è chi si rifà al fatto che in epoca greca, la collina vomerese era chiamata Vomòs (βωμός, cioè “collina”). Nel Seicento, invece, si diffuse il nome Vomer, che i dotti vorrebbero derivare appunto da Vomòs. C’è chi è disposto a giurare che il nome tragga origine dal gioco del “vomere”, un passatempo che i contadini della collina praticavano nei giorni festivi, sfidandosi a tracciare con l’aratro il solco più diritto.

Noi che ci viviamo “da sempre” siamo molto orgogliosi del fatto che una lapide ricordi come, nelle giornate dal 28 settembre al I° di ottobre del 1943 furono anche le schiere del Vomero a riscattare Napoli con il coraggio e la determinazione capaci di scacciare l’invasore e farci meritare come città il conferimento della Medaglia d’Oro al Valor Militare.

Ma torniamo ai fiori. Francesco e Antonio venivano da Soccavo. Il primo, restato scapolo e il fratello, sposato e padre di due figli, decisero di continuare il lavoro della madre, riuscendo ad avere un posto per il loro chiosco, nel 1970,vicino al Bar Sangiuliano, che all’epoca era posto all’angolo di Via F. Cilea e Via Santa Maria della Libera. Il bar ha cambiato più volte nome e proprietari, ma lo ricordano in tanti assieme al tempo in cui Via Cilea era piena di benzinai e pompe di benzina che ora occorre cercare altrove. Mentre invece la strada attualmente, è invasa, specialmente il sabato, da file di persone e di auto: gente che cerca un panino, una pizzetta o altro dai fornitori del posto, facendo impazzire il traffico.

Antonio ci spiega che il loro chiosco, a causa di restringimenti di marciapiede, fu poi spostato dove si trovano attualmente. Gli ho chiesto se i Vomeresi sono gli stessi di allora e mi ha risposto che non lo sono: “No: in tanti hanno venduto la terra e poi le case, per spostarsi lontani dal caos che si vive oggi al Vomero. Hanno ville a Varcaturo, Licola e zone vicine. Tanto si muovono facilmente con la Tangenziale”. Ci dice che la maggioranza dei Vomeresi di oggi (contati in circa 47847, ossia 2,17 per Kmq), vengono da zone differenti e sono restati in pochi di quelli “autentici”.

I nostri due fratelli fino a poco tempo fa si recavano ogni mattina (tranne il lunedì, laddove il mercato dei fiori è chiuso), a Castellammare, uscita autostrada, verso le tre e mezzo del mattino per rientrare e rifornire il piccolo chiosco. Ma Francesco si dice troppo anziano per continuare questo tran tran, per cui attualmente si rifornisce al mercato di Pozzuoli.

Acquista rose di vario colore, liryum, margherite, calle, ranuncoli, ortensie, petunie, garofani, anemoni, fiordalisi, orchidee, ibischi, begonie, camelie ed altri tipi di fiori per accontentare la clientela, che non è più la stessa: “I soldi non girano. Chi ce li ha se li tiene perché la sicurezza economica non c’é. A comprare i nostri fiori sono le persone che appartengono alla media borghesia… ma luglio e agosto si vende poco e niente.”

La loro vita lavorativa si è espressa in ore ed ore sotto il sole o sotto la pioggia, con il freddo o il caldo eccessivo, preparando fasci di fiori per le occasioni allegre e tristi e guadagnando l’indispensabile e nei periodi più ricchi qualcosa in più.

D’altra parte oggi le fiorerie sono negozi più ampi, che non si dedicano più alla sola vendita di piccole composizioni o bouquet. Attirano clienti con esigenze e budget anche importanti. Accade anche, come nel 2018 al Vomero, in Via Luca Giordano, che una edicola di giornali si trasformi in chiosco per i fiori. Una risposta alla crisi che investe il settore della carta stampata forse anche peggiore di quella della vendita di fiori, evidentemente.

Intanto i nostri amici provano a resistere, all’età che avanza, alla inflazione, al cambio dei Vomeresi presenti in zona. Li osserviamo ogni mattina portare avanti e indietro la merce e liberarsi tristemente di quella che resta invenduta. Si sa: i fiori sono l’emblema della bellezza femminile. se non sono amati in tempo, sfioriscono e non resta che gettarli nell’organico.

Bianca Fasano

 

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