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*In “Undulna”, saggio che celebra la Divina coordinamento di Pierfranco Bruni e curato da Franca De Sentis per Solfanelli importante e originale testo di Admira Brahja*

 

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Eleonora Duse nella cultura albanese come la musa ispiratrice di D’Annunzio

di

Admira Brahja

 

 

Eleonora Duse segnò un punto di incontro fondamentale tra il teatro tradizionale e quello di inizio Novecento. Non solo in Italia.  Ma in tutte quelle realtà dove la sua presenza sulla scena è stata importante. Si pensi al Sud America o in Russia. Ha trasformato la rappresentazione del reale in una manifestazione in cui il personaggio ha avuto un ruolo primario. La teatralità per la Duse non è mai stata mera rappresentatività di una storia. La storia ha sempre avuto una visione specifica nella dimensione del gesto. Il gesto degli occhi, delle mani, del passo sono una ribalta a scena aperta. Eleonora recitava oltre le parole. Con la gestualità, appunto.

Hermann Hesse ebbe a dire: “Eleonora Duse. La sua recitazione, anche quella delle mani, è favolosamente fine, sensibile e trascinante; la sua meravigliosa voce è capace di ogni sfumatura e riesce ad essere commoventemente infantile o far gelare il sangue nelle vene. La sua presenza sul palcoscenico è serrata, flessibile e, in ogni istante, di grande effetto plastico”

“Effetto plastico”. Infatti ogni suo gesto è una movenza la cui plasticità è un movimento, un agire, un’azione.

Un pensiero di Chaplin descrive tutta questa plasticità. A Los Angeles in una sua presenza Eleonora ha attraversato tutta se stessa tanto da colpire nel segno non solo la teatralità ma anche ciò che diventerà cinematografia. Tutto ciò è nelle parole di Chaplin: “Quando la Duse venne a Los Angeles, nemmeno l’età e la fine incombente poterono oscurare il fulgore del suo genio.

L’attrice era accompagnata da un’eccellente compagnia italiana. Prima della sua entrata in scena un giovane e bell’attore fornì una prestazione superba, tenendo magnificamente il palcoscenico. Come avrebbe fatto la Duse a superare la straordinaria prestazione di questo giovanotto?

Poi, dal fondo del palcoscenico, all’estrema sinistra, la Duse entrò in scena sbucando da un archivolto, piano piano, quasi senza farsi notare. Si fermò dietro un cestello di crisantemi bianchi che troneggiava su un pianoforte a coda e, silenziosamente, cominciò a rimetterli a posto. Un mormorio percorse la platea, e la mia attenzione lasciò immediatamente il giovane attore per concentrarsi sulla Duse. Ella non guardò né il collega né alcuno degli altri personaggi, ma continuò silenziosamente a disporre i fiori nel cestello e ad aggiungerne altri che aveva portato con sé. Quand’ebbe finito attraversò diagonalmente il palcoscenico, sedette in una poltrona accanto al caminetto e guardò il fuoco. Solo una volta fissò il giovanotto, e quell’occhiata racchiudeva tutta la saggezza e il dolore dell’umanità. Poi continuò ad ascoltare e a scaldarsi le mani: quelle mani così belle, così sensibili.

Dopo il veemente discorso di lui, ella parlò pacatamente guardando il fuoco. Non c’era traccia di istrionismo; la sua voce veniva dalle ceneri di una tragica passione. Non compresi una parola, ma mi resi conto di essere alla presenza della più grande attrice che avessi mai visto” (Charlie Chaplin).

Una delle più grandi attrice. Dice Chaplin. Un’attrice. A questo ruolo della femminilità sulla scena Eleonora ha molto lavorato. Il suo legame che le attrici e soprattutto con le scrittrici ha giocato un ruolo speculare. Le scrittrici e i personaggi femminili sulla scena hanno testimoniato il suo essere  e il suo darsi. Lei stessa dirà: “Il fatto è che mentre tutti diffidano delle donne, io me la intendo benissimo con loro! Io non guardo se hanno mentito, se hanno tradito, se hanno peccato – o se nacquero perverse – perché io sento che hanno pianto – hanno sofferto per sentire o per tradire o per amare… io mi metto con loro e per loro e le frugo, frugo non per mania di sofferenza, ma perché il mio compianto femminile è più grande e più dettagliato, è più dolce e più completo che non il compianto che mi accordano gli uomini” (Dalle Lettere, 1885; citato in Corriere della sera, 20 marzo 2011).

Molto vera questa affermazione tanto da far scrive al giornalista Vincenzo Morello questa emblematica testimonianza: “La figura della donna, fine ed elegante: il volto pallido e dolente, a cui il candido sorriso irregolare accresce tormento più che non dia letizie; la parola acuta, tagliente, mordente, che basta da se sola a rendere il significato delle cose; tutta la sua persona e tutta la sua intelligenza rivelano la donna moderna, la donna capace di sentire la realtà e di darle l’espressione artistica più immediata e più vera. Eppure, ella ha, da qualche tempo, la nostalgia dell’antico: ella si tortura nel pensiero di far qualcosa di diverso di quello che ha fatto fino ad ora: ella si sforza, quasi, di uscire da se stessa, di rifarsi un nuovo carattere, un nuovo metodo, un nuovo sistema d’arte: di distruggersi insomma, per ricrearsi in una forma, che non sia più del nostro tempo, e neppure della nostra letteratura. Ella sogna la tragedia; ella, delicata e tormentata anima cresciuta nelle intime lotte e nelle complicate tristezze del nostro tempo, sogna le gravi istorie e le gravi fortune create dai fati, indipendentemente dalla forza e dalla volontà individuale”.

Ha portato sulla scena la tristezza e la malinconia, il ricordo e la nostalgia. Dagli ambienti di Napoli a Venezia, dalla Laguna alla Versilia. In ogni luogo c’è il sigillo di un amore. Ogni amore è stato un incontro non solo sentimentale ma profondamente culturale. La culta nella vita. Il teatro è il mascheramento di un amore? Forse sì. Ma lei non ha mai smesso la maschera di se stessa. Di essere la maschera che portava dentro. Quella maschera che ha recitato non solo il personaggio che ha interpretato ma lei stessa come personaggio di sé medesima. Proprio per questo è il respiro di una unicità che il teatro italiano ha espresso.                                                           Undulna in albanese.

“La vita della divina Eleonora Duse, amata da tutti, ma umiliata in amore”, questo è il titolo del giornale “Fjala” dedicato alla Duse, dove tra cenni biografici e altro si descrive l’amore travagliato tra lei e il vate. Duse entra nella cultura albanese come la musa ispiratrice di Gabrielle D’Annunzio e solo in un secondo momento si parla di lei nel giornale “Bota sot” come la più grande attrice del teatro italiano.  Il suo nome non può perdersi nell’oblio, si scrive nell’articolo,  perché la sua eternità è impressa nella memoria dell’arte. Lei salì sul palcoscenico per trasformarsi in un’icona. Non c’era niente che potesse fermare questa donna dalla volontà titanica.

Purtroppo non ci sono studi dedicati interamente all’attrice, ma esistono alcune traduzioni della poesia “La pioggia nel pineto” tra cui quelle Islam Spahiu 2010, di Aida Dizdari 2019, di Jozef Radi 2017 che sicuramente ha lasciato un’impronta nell’immaginario della poesia albanese.

Ismail Kadare scriveva nel 1976 la poesia “Mall” “Nostalgia” che io oso definirla “La pioggia nel pineto albanese”, dove a mio avviso sono evidenti i riferimenti a D’Annunzio; l’elemento dell’acqua, la pioggia, la favola, la parola che diventa immagine nell’illusione del sogno.

“Në ç’ëndërr kemi rënë kaq keq”.

In che sogno ci siamo persi

“Që dot s’po zgjohemi ne vallë ?…”  da non potersi più svegliare?

“Ca pika shiu ranë mbi qelq                        Gocce di pioggia caddero sui vetri
Dhe unë për ty seç ndjeva mall”. E io ti sentivo mancare.

La strofa fa parte della raccolta “Ca pika shiu ranë mbi qelq” del 1979  e la poesia riporta lo  stesso titolo.

Eleonora Duse e Gabriele D’Annunzio forse sono due figure che sono destinati a viaggiare insieme nelle culture dei popoli e lasciarne le impronte, perché la loro storia d’amore, di passione e di scrittura ha regalato all’umanità dei capolavori.

Nella traduzione che segue propongo in lingua albanese (in dialetto gegë di Malësi e Madhe)  la prima strofa di “La pioggia nel pineto”

 

“Shiu në Pishnajë

 

Praj. Në pragje

t’pyllit nuk nij

za t’gjallë;

po nij

do fjalë ma t’reja

pikla e gjethe po flasin

njatje larg.

Nij. Bjen shi

Prej rëve t’shpërndame.

Bjen shi mi maretë

e njelmta e t’thame,

bjen shi mi pishat

luspore e halore,

bjen shi mi mërsinat

hyjnore,

mi gjinestrat çi shnrrisin

mush n’lule,

mi dëllinjat

plot kundërrime.

Bjen shi mi ftyrat tona

t’egërsume,

bjen shi mi durt tona

cullake,

mi teshat tona

t’holla,

mi menimet e freskta

çi zëmrën çilin

e diftojnë

prrallën e bukur

çi dje

t’rrëjti, çi sot m’rrë

o Ermionë”.

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