La delegazione di Chieti celebra la “Cena dei 4 calici: il brindisi di Gesù”: un invito alla consapevolezza e alla lentezza della buona tavola
La conviviale, svoltasi giovedì 7 novembre, presso il ristorante stellato “Villa Maiella” di Guardiagrele ha visto la guida di mons. Martino Signoretto, vicario per la cultura della diocesi di Verona, che ha preso spunto dalla scena evangelica dell’Ultima Cena
«L’attesa valorizza il pasto, è una forma di speranza che va applicata alla vita quotidiana: occorre riacquisire nella nostra vita la dimensione dell’attesa perché il continuo correre ha snaturato il nostro rapporto sia con il cibo, sia con la vita»: con questa esortazione mons. Martino Signoretto, docente dell’Istituto Teologico “San Zeno” e vicario episcopale per la Cultura della diocesi di Verona, ha concluso giovedì sera, 7 novembre, la «Cena dei quattro calici», servita presso il ristorante stellato «Villa Maiella» di Guardiagrele ed organizzata dalla delegazione di Chieti dell’Accademia Italiana della Cucina, guidata dal delegato e coordinatore territoriale Abruzzo, Nicola D’Auria.
Una esperienza di condivisione, prima che una cena, in cui ad avere il posto d’onore sono stati i vini, serviti in quattro calici differenti per riprodurre la scansione delle bevande presenti sulla tavola della Pasqua ebraica, «anche se – ha precisato mons. Signoretto in apertura – questa non è una cena ebraica, visto che abbiamo aperto con i salumi, assolutamente vietati nelle civiltà di origine semitica ed araba».
Dopo l’attesa, consumata con i salumi di produzione propria del locale con il pane di grano di solina e lievito madre, realizzato in loco, e innaffiata dallo spumante brut rosé “Alba Rosa” della cantina “Tenuta i Fauri” di Chieti, a tavola il primo calice, quello del Kiddush, ossia della santità, è stato riempito dal rosato Igt Terre d’Abruzzo “Lapis” vendemmia 2024 della Cantina Dora Sarchese di Ortona, che ha accompagnato l’uovo marblè su cialda di pane bruciato: «Siamo abituati a pensare – ha commentato mons. Signoretto – che “chi si ferma è perduto”, ma in realtà nella tradizione giudaico-cristiana chi si ferma ritrova sé stesso, è capace di considerare la propria identità. Nella Bibbia si legge che la prima cosa che fece Noè dopo essere uscito dall’arca e aver ripreso posto nel mondo è stata piantare una vigna e vinificare, tanto che si è ubriacato. Di fronte al vino abbiamo tre possibilità: o vietarne il consumo, perché abbruttisce l’uomo, come capita nella tradizione araba, o moderarne il consumo con un atteggiamento mentale, formale, estraneo alla volontà, oppure contemplarlo e apprezzarlo: non ne bevo tanto perché altrimenti lo deprezzerei; ne bevo la giusta quantità perché mi elevo, ne faccio cultura, lo gusto con lentezza e piacere».
Il secondo calice, quello dell’Haggadà, ossia del racconto, ha avuto come protagonista il Trebbiano d’Abruzzo Doc “Altare” della Cantina Marramiero di Rosciano, accanto al farro mantecato con funghi e tartufo: «Il bere vino – ha spiegato mons. Signoretto – è sempre un’esperienza sensuale, che coinvolge tutti i sensi, così viene descritta in tutta la Bibbia, in particolare nel Cantico dei Cantici, ed è il vino il protagonista del primo miracolo di Gesù, che salva una semplice festa di matrimonio da un imbarazzo enorme. Uno “scandalo” educativo che ci ricorda come l’uomo ha bisogno di riti, di momenti particolari in cui ci estraniamo dalla banalità del quotidiano, immettendoci così nell’eternità, anticipando per qualche ora il paradiso, che tra l’altro è indicato nei testi sacri come un banchetto».
Il terzo calice, quello della Berakà, ossia della benedizione, riempito di un Montepulciano d’Abruzzo Doc “Atteso” dell’Azienda Agricola “Contesa” di Collecorvino, servito accanto ad un agnello marinato al timo su hummus di ceci, ha introdotto il tema dell’attesa: «L’attesa – ha detto mons. Signoretto, invitando i commensali a non consumare subito il vino e la pietanza – valorizza ogni realtà, è una forma di speranza, ci consente di ritrovare noi stessi e di dare il giusto posto ad ogni cosa. Con il pane ed il vino diventati i simboli dell’eucarestia, Gesù ha creato un vero e proprio brand, un logo, che racchiude il senso di una vita. Mangiare e bere assieme è partecipare della gioia, questo ci ha chiesto il Signore: Gesù ha affidato a due alimenti il senso della sua vita».
Il quarte e ultimo calice, quello dell’Hillel, ossia dell’alleluia, colmato con il vino liquoroso “Pergò” della Cantina Dora Sarchese di Ortona e posto accanto al fico bianco con crema rovesciata, ha chiuso con un richiamo alla responsabilità la conviviale: «L’ultimo calice – ha spiegato mons. Signoretto – è un calice che Gesù ha bevuto sulla croce, quando ha preso il vinum murratum offertogli dai soldati con la spugna in cima ad una canna. Anche Gesù avrebbe preferito non morire, chiede al Padre nell’orto del Getsemani che “passi questo calice”, ma non morire significherebbe vivere a metà, mentre morire sarebbe vivere pienamente tutta la sua vita. Bere l’ultimo calice sino in fondo ci richiama al dovere di assumersi la propria responsabilità fino in fondo, tutta intera, unico modo di vivere pienamente».
La chiusura della serata è stata affidata a mons. Emidio Cipollone, arcivescovo di Lanciano-Ortona, e al vicepresidente vicario dell’Accademia Italiana, Mimmo D’Alessio, che, insieme al delegato Nicola D’Auria e al simposiarca Antonello Antionelli, hanno poi salutato la brigata di sala e di cucina, il sommelier Pascal Tinari, lo chef Arcangelo Tinari e i titolari Peppino e Angela Tinari.