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L’UNICO “VINCITORE” DELLE REGIONALI

È L’ASTENSIONISMO, COSÌ PATOLOGICO

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DA RENDERE MALATA LA DEMOCRAZIA.

L’ANTIDOTO? MELONI NE PRENDA ATTO

E PASSI SUBITO ALLA “FASE DUE”

di Enrico Cisnetto
Netta vittoria del centrodestra, all’interno del quale si consolida la supremazia del partito di Giorgia Meloni ma con un’inaspettata tenuta della Lega; nuova sconfitta della sinistra; conferma che i 5stelle formato Conte non sono un partito nazionale, ma solo meridionale; fallimento del tentativo di stabilizzazione del Terzo Polo. Che questi siano i risultati delle elezioni regionali di domenica scorsa è incontrovertibile, se il metro con cui li si misura è quello delle percentuali di voto. Ma siamo sicuri che rappresentino il vero significato politico di una consultazione molto rilevante, non fosse altro perché ha convolto le due regioni più popolose (quasi 16 milioni di abitanti complessivamente) e le due città più importanti del Paese, Roma e Milano? No, se si considera la quantità dei voti espressi e la si compara con i momenti elettorali più recenti. Perché, diciamoci la verità, alle Regionali l’autentico vincitore è stato il partito dell’astensione. Quando si vede che l’affluenza è miseramente crollata al 41,6% in Lombardia e al 37,2% nel Lazio, rispetto al 73,8% e al 66,5% di cinque anni fa (ma anche alle ultime politiche la percentuale dei votanti era stata oltre il 70% in Lombardia e il 63,5% nel Lazio) – cioè è andato a votare poco più di uno su tre degli aventi diritto – è evidente che il dato dominante di cui tener conto è il “non-voto”. Perché se è vero che entrambi i vincitori superano il 50% dei voti espressi, non meno vero è che restano sotto il 20% del consenso calcolato sugli aventi diritto. Per esempio, Francesco Rocca nel Lazio ottiene “solo” 934 mila voti su 4.8 milioni di aventi diritto e 5,9 milioni di residenti. E Attilio Fontana 1,7 milioni di voti su 8 milioni di elettori e 10 milioni di residenti. Si può governare con questi numeri? Sì, è perfettamente legittimo. Si può governare bene con un grado così basso di rappresentatività? Diciamo che il dubbio è altrettanto legittimo, perché avere la maggioranza nei consigli regionali è condizione necessaria ma non sufficiente, se la stragrande maggioranza dei cittadini del territorio che amministri sono indifferenti, quando non ostili.

 

Ma anche nel domandarsi quali indicazioni trarre sul piano politico nazionale dal voto di domenica scorsa, scaturiscono valutazioni molto diverse a seconda se si fa riferimento alle sole percentuali o se si guardano i numeri assoluti e li si confronta con le elezioni politiche del 25 settembre scorso. Se si guardano le tabelle che ho provveduto a ricostruire (vedi in fondo all’articolo) e che non ho visto su nessun media, salvo il mio War Room di martedì 14 (qui il link), si può notare che Fratelli d’Italia, partito a cui anche gli avversari hanno riconosciuto una vittoria schiacciante, in realtà nelle due regioni ha perso complessivamente circa un milione di voti: alle politiche aveva ottenuto 845mila voti nel Lazio e poco meno di 1 milione e 444mila in Lombardia, mentre alle Regionali ha avuto rispettivamente 519mila e 725mila preferenze. Che si possono arrotondare attribuendo una quota parte dei voti andati alle liste civiche di Rocca e Fontana, ma la sostanza non cambia: il partito della presidente del Consiglio in soli cinque mesi è stato abbandonato da quasi il 40% di chi lo aveva votato nel Lazio e la metà esatta di chi lo aveva scelto in Lombardia. Che poi lo abbiano fatto per votare qualcun altro (pochi) o più semplicemente siano rimasti a casa (i più) non volendo o non sentendo il bisogno di replicare la scelta che avevano fatto a settembre, poco importa.

Siamo sicuri che si tratti di un dato trascurabile per chi siede a palazzo Chigi? Non credo proprio. Né può essere consolatorio che anche agli altri due alleati di maggioranza sia toccata la stessa sorte, sia perché hanno perso meno voti (la Lega il 23% nel Lazio e il 30% in Lombardia, Forza Italia rispettivamente il 30% e il 48%) sia perché a perdere è comunque tutto il centrodestra, che lascia sul campo nelle due regioni sommate insieme il 29% dei voti. E chi sta al governo farebbe male a sentirsi tranquillo osservando che, sempre nelle due regioni sommate, anche il centrosinistra ha avuto un’emorragia di quasi 400 mila voti (-19%), che Conte si è perso per strada il 69% dei consensi e che il Terzo Polo si è dimezzato nonostante l’apporto della Lista Moratti in Lombardia.

 

Certo, il voto era scontato, la competizione poco avvincente, la campagna elettorale sottotono, faceva freddo, ma tutto questo non spiega affatto perché interi settori sociali non si riconoscano più nella politica fino al punto da ritenere del tutto inutile recarsi ai seggi. Un fenomeno talmente rilevante che, come sostiene Massimo Cacciari, pone un problema di legittimità politica del voto. Che ovviamente è cosa diversa dalla legittimità formale. È ragionevole pensare che il motivo numero uno della crescente astensione risieda nella scarsa qualità dell’offerta politica, sia in termini di programmi che di protagonisti. Fatto che si somma con il senso di disaffezione verso le istituzioni, e in questo caso specifico verso le amministrazioni regionali, percepite come lontane ma soprattutto come quelle che portano la responsabilità della cattiva sanità (che non a caso rappresenta l’80% delle loro attività e assorbe altrettanto delle loro risorse).

 

Ma c’è anche qualcosa di più profondo e radicato che ha generato l’astensionismo di massa. Ha ragione Luca Ricolfi quando dice che è una delle varie manifestazioni di un più generale cambiamento antropologico della società italiana, nella quale la perdita dell’equilibrio tra diritti e doveri ha generato l’idea che andare a votare sia una perdita di tempo e che la soddisfazione dei nostri bisogni e la tutela dei nostri interessi – intesi sempre più come individuali o al massimo di corporazione, e sempre meno nell’accezione di interesse generale – non passi dalle scelte della politica, la quale al massimo va usata come taxi (Enrico Mattei dixit), e magari senza neppure pagare la corsa. Non è un caso che la parabola del “non voto” s’intrecci con quella del declino – politico, ma anche sociale e soprattutto culturale e morale – in cui l’Italia ha cominciato a sprofondare dai primi anni Novanta. In questo senso vanno comprese le amare parole di Carlo Calenda sulle “colpe” degli elettori, cui va tolto l’alibi di avere “sempre e comunque ragione” (attenzione, solo in questo senso vanno intese quelle parole perché il fallimento dell’operazione Terzo Polo, che temo sia irreversibile anche se spero ardentemente di no, è prima di tutto sua). Insomma, se la nostra democrazia è malata, e lo è da un trentennio, la responsabilità non sta solo in capo alla politica e in chi fa politica, ma anche alla società, nella quale si è spento non solo l’ardore civico, ma anche la più piccola disponibilità alla partecipazione (con tanti saluti a Giorgio Gaber e alla sua “libertà è partecipazione”), in preda com’è a un mix di paura, ansia e insopprimibile desiderio di deresponsabilizzazione. Pulsioni che nell’elettorato hanno finito col prevalere, rispetto a quelle più meditate della responsabilità e dell’equilibrio, perché sono tre decenni che nessuna forza politica parla al Paese con un linguaggio di verità, ne c’è stata una classe dirigente non politica (imprenditori, intellettuali, borghesia colta) che abbia fatto un significativo controcanto.

 

Detto questo, non resta che analizzare le conseguenze del voto regionale, quelle certe e quelle auspicabili. Tra le prime, gli analisti annoverano in coro una più agevole condizione di comando della presidente del Consiglio. Non sono d’accordo. Credo infatti che sia perfettamente rovesciabile l’assunto secondo il quale Salvini e Berlusconi saranno d’ora in avanti alleati più mansueti perché avendo scampato il pericolo di una pesante débâcle elettorale non saranno mossi dalla rabbia. Certo, se il loro risultato fosse stato più negativo (positivo non è stato comunque) avrebbero avuto il dente avvelenato. Come dimostra la non casuale uscita del Cavaliere su “quel signore”, spregiativamente inteso come Zelensky, che tanto imbarazzo ha creato al governo, c’è da scommettere che useranno la loro forza relativa (“siamo indispensabili alla maggioranza”, è il refrain) per “ricattare” Meloni ogni piè sospinto. Aspettate qualche settimana e vedrete il teatrino che imbastiranno sulle nomine dei manager nelle aziende pubbliche. Così come il riverbero di tutto questo lo si vedrà nello scenario europeo, e in particolare negli equilibri delle alleanze politiche continentali. La seconda conseguenza certa del voto è che non produrrà nessuna conseguenza sulla sinistra, che rimarrà imbozzolata dentro la sua crisi strutturale, e in particolare sul Pd, che non troverà nel “congresso” la soluzione dei suoi atavici problemi.

 

Quanto alle conseguenze desiderabili del voto, ne indico due, che in entrambi i casi richiedono preventivamente che si depongano subito le armi della propaganda e si analizzino i risultati elettorali partendo dall’ammissione di una generale sconfitta, visto che quasi due cittadini su tre che sono rimasti a casa. E poi condividendo che questa democrazia malata richiede ricette non usuali (per esempio quella suggerita dal ministro Valditara, che ha parlato di “patto repubblicano” su alcuni temi cruciali tra maggioranza e opposizione, che consentirebbe a tutti di allentare i corsetti soffocanti delle alleanze “costrette”).

 

La prima riguarda l’istituto stesso delle Regioni. Sono convinto che una quota non piccola dell’astensionismo di domenica scorsa sia dovuta al fatto che negli italiani è maturato un giudizio di sonora e inappellabile bocciatura delle Regioni. Forse, a oltre mezzo secolo dalla loro creazione, è venuto il momento di ripensarle insieme a tutta l’architettura del nostro decentramento amministrativo. E, per esser chiari, non proprio nella direzione di accrescere la loro autonomia, come si intende fare. Abbiamo intuito che Meloni non ha le stesse idee di Calderoli e Salvini. Ora, grazie all’analisi del voto laziale e lombardo, è venuto il momento di rendere esplicito questo dissenso. Magari tirando fuori da qualche cassetto (per me lo ha fatto il prof. Giuseppe Pisauro, che ringrazio moltissimo) una sua vecchia proposta di legge datata 15 gennaio 2014, cofirmata con l’attuale ministro Cirielli, che proponeva di modificare il titolo V della Costituzione sopprimendo Regioni e Province a favore di 36 nuove entità. È la stessa mia idea che avrete già letto su TerzaRepubblica più volte e che deriva da uno studio-proposta della Società geografica italiana, che ha ridisegnato la mappa del nostro territorio ideando “36 Dipartimenti”, sostitutivi appunto degli attuali due livelli sovracomunali. Meloni, da quando è arrivata a palazzo Chigi, ha cambiato idea su molte cose che diceva e proponeva nel passato, e qui abbiamo benedetto esplicitamente la sua sana incoerenza. Ma questa volta sarebbe bene che non lo facesse e rilanciasse con coraggio quella sua buona proposta.

 

La seconda conseguenza desiderabile del voto regionale, forse lo si è già intuito, sta in quella che Stefano Folli ha definito “la fase due del melonismo”. Forte del successo formale e insieme della capacità di ammettere l’insuccesso politico (seppure di tutti) dell’appuntamento elettorale – un combinato disposto che le assicurerebbe una leadership senza rivali – la presidente del Consiglio dovrebbe uscire dalla quotidianità in cui è rimasta schiacciata nei primi cento giorni di governo, mettere definitivamente da parte l’agenda populista di cui era armata e provare dare un respiro più strategico al suo operare. In casa, ma soprattutto sulla scena europea e internazionale. Ne sarà capace? Non lo so, ma è l’unica scommessa che è rimasta sul tavolo.

 

 

 

 

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